LE DONNE STRANIERE ABORTISCONO MENO SE HANNO VICINO UN “MEDIATORE”

di Daniela Mignogna
Negli ultimi anni abbiamo assistito alla progressiva diminuzione del tasso di abortività tra le donne italiane a fronte della crescita del ricorso all’IVG (interruzione volontaria di gravidanza). I dati più recenti ci mostrano che anche tra le donne immigrate comincia a calare il tasso di abortività e questo soprattutto in quelle regioni dove sono più avanzati i programmi e le politiche di integrazione, compresi quelli interni al sistema sanitario che prevedono precisi interventi di mediazione linguistica e culturale.  Questo è quanto ha dichiarato il direttore del Reparto salute della donna dell’Istituto Superiore di Sanità, e ha fornito il dato che conferma come il lavoro di queste figure professionali vada ben oltre quella visione volontaristica e ancellare che in molti si ostinano ad avere nei confronti dei circa 4.000 operatori della mediazione sanitaria che operano nel nostro Paese.
Ma non basta. La mediazione fa anche risparmiare risorse e grazie alla mediazione si possono abbattere inappropriatezza prescrittive e terapeutiche a tutto vantaggio delle casse del sistema sanitario nazionale.

Insomma la mediazione sanitaria non è un “peso” da pagare all’immigrazione ma un’opportunità da cogliere per ammodernare il sistema sanitario anche in questa fase di forti flussi immigratori che richiedono risposte certe e stabili, fuori dalla logica emergenziale.
E’ stata chiesta da tempo, ma ancora non ha ancora visto la luce, una legge nazionale per il riconoscimento della figura professionale del mediatore e per la razionalizzazione dell’iter formativo, così da superare l’attuale giungla che vede corsi che offrono attestati anche con sole 50 di lezione a fronte delle 400 previste da una direttiva del 2009 del Ministero del Lavoro, ma che conta anche l’esistenza di corsi di laurea ad hoc.

Le Regioni, in effetti, si sono già mosse ma, come spesso capita in sanità, in modo diverso tra loro. Sia dal punto di vista formativo, avviando corsi con monte ore e caratteristiche diversi, sia dal punto di vista organizzativo. Una diversità da salvaguardare per le specificità dei bisogni e dei territori ma sulla quale nulla osta a una normativa nazionale che fissi i paletti di orientamento per formazione, ruolo e competenze di questi operatori.
Abbiamo tutti gli elementi per fare di queste figure una presenza garantita in tutte le strutture sanitarie pubbliche. E per farlo, non servirebbe neanche una legge, basterebbe la volontà delle amministrazioni regionali e delle Asl, anche se dubito che in questa fase e in questa congiuntura politica esista tale volontà.

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