DEDICO IL MIO 8 MARZO ALLE MADRI DI RAGAZZI DISABILI GRAVI: LE PARI OPPORTUNITA’ CHE NON ARRIVANO MAI.  
di Daniela Mignogna Segreteria Nazionale PSI- Dipartimento Socio-sanitario

La disabilità è un argomento complesso e vasto. I bambini che nascono con patologie genetiche , metaboliche, traumi da parto , sono in forte aumento , senza dimenticare quelli che diventano disabili a causa di incidenti stradali o domestici .
La famiglia si trova da un momento all’altro a dover cambiare vita, viene travolta dai sentimenti, dai timori, dalla disperazione , dalla incredulità.
Le madri con figli disabili non hanno le stesse Pari Opportunità della altre madri.
Le donne che si trovano a vivere la realtà di un figlio disabile non vengono informate adeguatamente del sostegno previsto dalle nostre leggi che spesso sono inapplicate proprio da chi dovrebbe invece metterle in opera.
Il primo ostacolo a cui si trova di fronte una madre è la mancata e adeguata assistenza per permetterle di continuare a lavorare , sia per mantenere inalterato il livello economico del nucleo famigliare, sia per mantenere un minimo di vita di relazione, che può aiutare nel tempo a vivere un contesto sociale e non rischiare di cadere nella depressione più totale. Abbiamo esempi strazianti di madri che uccidono il figlio disabile e a volte si uccidono esse stesse...
Le patologie genetiche, gravissime in molti casi , possono coinvolgere l’apparato motorio , respiratorio, sensoriale: ci troviamo così di fronte a un bambino che per vivere ha bisogno di un respiratore, dell’inserimento della PEG ( sondino per l’alimentazione inserito nello stomaco) e con la vista o l’udito compromessi .In questi casi per permettere alla mamma di tornare al lavoro dopo il periodo previsto per il congedo di maternità sarebbe necessaria un’assistenza con personale sanitario di almeno 10 ore al giorno ( 8 di lavoro e 2 per gli spostamenti). Così non è se non in rarissimi casi: nella maggior parte delle situazioni in tutte le Regioni italiane le madri sono costrette a scegliere se occuparsi del loro bambino, rinunciando al lavoro o scegliere il lavoro, rinunciando a vivere con il proprio figlio.
Il delitto peggiore che si possa commettere è separare un figlio dalla propria madre, e questo avviene quando questi ragazzi vengono inseriti nei centri residenziali, non inferiore come gravità a mettere di fronte a scelte sofferte, solo per motivi economici, queste stesse madri che hanno la sola colpa di appartenere a un ceto medio , o medio basso.
A quali madri di figli normodotati viene chiesto di fare questa scelta? Per loro ci sono le babysitter, i nidi , i nonni, per i figli in condizione di handicap invece le babysitter non hanno la preparazione necessaria, gli asilo-nido spesso non si attivano, visto che fanno capo al Comune le spese di gestione ,i nonni ,quando ci sono ,sono spaventati dall’impegno “straordinario nel vigilare un bambino con disabilità grave.
“Mancano i fondi necessari”: sono le parole che sia le ASL che i comuni tramite gli assistenti sociali ripetono fino alla nausea alle famiglie , ma allora che devono fare queste donne e madri? Quali sono le priorità di un Paese civile?
Non vedo perché non dedicare a queste madri un piccolo tributo, un piccolissimo pensiero: la celebrazione del mio 8 marzo.




PER UN CESPO D’INSALATA di Rita Moriconi

Fiaba Semiseria sul coraggio delle Donne

Siamo a Reggio Emilia, in un caldo 20 agosto del 1796.  
In quei giorni la situazione in città è confusa: i francesi occupano la Cittadella ed il Reggente estense invia 400 Dragoni per cercare di mantenere l’ordine; ma verso le cinque del pomeriggio arriva il casus belli sotto l’insolita forma di un cespo d’insalata.
Dobbiamo fare uno sforzo d’immaginazione e porci in piazza San Prospero, la piasa céca dei reggiani. Quel luogo, all’ombra della basilica del patrono, ora come allora rappresentava il cuore della vita cittadina, dove si svolgeva il mercato quotidiano.
La piazza è gremita di gente quando, in un punto imprecisato, scoppia una lite fra un granatiere e un’ortolana perché, pare, non si erano messi d’accordo sul prezzo della merce. Episodi come questi  rappresentavano forse la normalità in un mercato cittadino, ma la confusa situazione politica i cui si trovava la città era sufficiente a trasformare la fiamma di un cerino in un incendio.
L’azione è degna di un copione hollywoodiano: un barbiere tenta di mettere pace tra il soldato e l’ortolana, ma è minacciato con una sciabola che finisce addosso ad un ragazzino; alle grida di quest’ultimo accorre l’Auditore militare Ferdinando Ruffini, che rimprovera il soldato, cui però arriva a dare manforte un commilitone che colpisce il braccio dell’Auditore; quest’ultimo, per evitare altre percosse, trova rifugio in un negozio nel quale, manco a farlo apposta, si trovava un noto e fervente repubblicano, Carlo Ferrarini che, preso da furore antiestense, afferra una sedia e la scaglia addosso ai soldati.  La loro reazione non si farà attendere e il povero Ferrarini, coinvolto suo malgrado, dopo essere stato malmenato dai soldati è trascinato in arresto negli alloggiamenti della milizia a porta san Pietro.
La notizia dell’arresto del Ferrarini si sparge in un baleno e la piazza si riempie di gente che chiede la sua liberazione. E’a questo punto che compare sulla scena un personaggio che diventerà quasi un’icona della rivoluzione cittadina: Rosa Manganelli, nome omen.
La donna si pone coraggiosamente alla testa dei repubblicani cominciando a distribuire armi agli accorsi e,dopo aver guidato la schiera dei rivoltosi in piazza grande, allora sede del governo cittadino, capeggia l’occupazione del palazzo pubblico e scatena la caccia al dragone estense. In un primo tempo la guarnigione sembra non rendersi conto della gravità della situazione e minaccia i rivoltosi di “voler giocare a bocce con la testa dei giacobini” ma, dopo un invito alla prudenza da parte del Senato cittadino, è consegnata nei propri alloggi ed è impartito l’ordine di rilasciare subito il prigioniero.
All’alba del 22 agosto la guarnigione senza battere tamburo si ritira a Modena. Il governatore estense, Don Mario Fici della Giumerella dei duchi di Amalfi detto significativamente “fico”, vistosi in balia della folla senza la protezione dei dragoni, fugge dalla città con i soldati: la rivoluzione ha trionfato e la città è finalmente libera, tanto da divenire, come scrive Prospero Fantuzzi in una cronaca, La Primogenita.
A coronamento dell’avvenuta rivoluzione, nella notte tra il 25 e il 26, un piccolo gelso diviene “Albero della Libertà” e viene piantato davanti all’ex sede del governo Estense da un gruppo di ardimentosi cittadini quale coronamento della ritrovata indipendenza. E fu così che Ugo Foscolo dedicò l’Ode a Bonaparte liberatore ai Reggiani “Primi veri italiani e liberi cittadini” forse non sapendo che tale scintilla fu accesa dal coraggio di due donne, di una soltanto delle quali, purtroppo, conosciamo il nome.
Questa fiaba ci insegna che non bisogna mai sottovalutare il coraggio delle donne, cui dobbiamo onore, rispetto e riconoscenza per tutto ciò che, spesso nell’ombra e nel silenzio, hanno fatto per noi Italiani. W l’Italia

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