Licenziamenti per sole donne

La vicenda della fabbrica Ma-Vib 

di Pia Locatelli - presidente internazionale socialista donne

Ero bambina, quindi alcune decine di anni fa, e ricordo l’aria cupa che si è respirata per un certo periodo nel mio paese, a qualche chilometro dalla città di Bergamo, per i licenziamenti in atto nell’azienda tessile che dava lavoro a gran parte degli abitanti della zona. 
Tutte le famiglie avevano almeno una persona che lavorava al Linificio e quindi i licenziamenti  colpivano la maggioranza delle famiglie. Le cattive notizie arrivavano in successione perché i licenziamenti erano scaglionati. Non ricordo, forse non ho mai saputo, il motivo dello scaglionamento, ricordo con vivida chiarezza l’aria di attesa della “disgrazia” ed il respiro di sollievo quando si scampava al licenziamento dello scaglione. Le prime a “saltare” furono le donne più giovani, poi le altre donne; il dramma fu percepito gravissimo solo quando fu il turno dei padri di famiglia, che arrivò per ultimo.
Questo succedeva cinquant’anni fa. Ora il mondo è cambiato, ma forse solo superficialmente, in profondità le convinzioni e i modelli culturali sono gli stessi, la divisione sessuale del lavoro è ancora presente: agli uomini la produzione, alle donne la riproduzione.
Cinquant’anni fa nel Nord Italia - al Sud era tutta un’altra storia - le donne che “non studiavano” entravano nel mercato del lavoro dopo l’obbligo scolastico e ne uscivano nella quasi totalità con il matrimonio, non al primo figlio. Era un modello culturale: ti sposi e ti dedichi alla casa e alla famiglia, quella che verrà. Quelle che non si sposavano continuavano a lavorare fuori casa fino alla pensione perché non avevano un uomo che le “mantenesse”.
Il mondo nei decenni è cambiato: l’obbligo scolastico a quattordici anni, che ha beneficiato soprattutto le ragazze, gli elettrodomestici, la televisione, la pillola contraccettiva, qualche donna in più in parlamento, la prima ministra, Tina Anselmi al Lavoro, la legge sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, la legge sull’aborto, una maggiore consapevolezza di sé, le donne che si sposano e in numero sempre minore lasciano il lavoro. Grandi progressi che si riteneva conseguiti per sempre, la vita nelle nostre mani, credevamo.
La vicenda della fabbrica di Inzago smentisce questa certezza e ci fa percorrere all’indietro questo processo, perché i licenziamenti delle sole donne confermano che il modello sociale di cinquant’anni fa permane, è ancora cultura diffusa e quando la crisi si fa sentire, le donne sono le prime a pagare perché il loro è lavoro “aggiuntivo”, secondo salario per aiutare il bilancio familiare, un di più che in tanti pensano di scoraggiare attraverso la proposta del quoziente familiare, il più efficace disincentivo al lavoro femminile. E’ innegabile che la crisi continui a far sentire i suoi effetti, con ricadute pesanti sulla occupazione, e che a volte la riduzione del personale sia necessaria. Ma l’emergenza lavorativa, che sarebbe sbagliato negare, non c’entra con il licenziamento delle sole donne ad Inzago.
Quella dei titolari della Ma-Vib, nonno, figlio, nipote, è una decisione più ideologica che aziendale: dovendo ridurre il personale si fa una scelta chiara a favore appunto della divisione sessuale del lavoro: quello produttivo agli uomini e quello riproduttivo alle donne. Non c’entrano le linee produttive da sopprimere o le competenze necessarie all’azienda, l’ideologia prima di tutto e il modello sociale tradizionale a fare ancora da bussola nelle scelte aziendali.
D’altro canto perché dovremmo meravigliarci se, a parità di competenze, il divario salariale medio tra uomini e donne è attorno al 17%, se il gap tra occupazione maschile e femminile è pari al 20%, se a fronte di una richiesta della UE di asili nido che soddisfi almeno il 30% della fascia d’età 0-3 anni non offriamo nemmeno la metà di quanto previsto, se le misure di conciliazione tra vita familiare e vita professionale sono pressoché inesistenti e comunque pensate come se riguardassero esclusivamente le donne?
Il nonno, il figlio, il nipote di Inzago, la “proprietà” - ma non ci sono donne in quella famiglia? - sono accusati dal sindacato di avere motivato la loro scelta con il fatto che le donne possono, o devono, stare a casa e curare i figli. Successivamente  i titolari hanno negato di aver mai pronunciato la frase incriminata.
Mi sembra irrilevante l’aspetto formale della prova della discriminazione, i tre hanno fatto quello che in tanti pensano, a partire dagli stessi lavoratori dell’azienda che temo abbiano considerato il licenziamento delle sole donne il male minore visto che in pochi hanno partecipato alla manifestazione di protesta.
Non credo che questa sia una lotta degli uomini contro le donne, e non credo che gli uomini, che conservano il posto di lavoro mentre le donne lo perdono, possano essere considerati vincitori. Ci perdono tutti, ci perdiamo tutti, perché siamo tornati a cinquant’anni fa e non casualmente la nostra posizione di fanalino di coda in Europa nelle statistiche del lavoro femminile e nel tasso di crescita ancora una volta si conferma.
Cos’è cambiato rispetto a cinquant’anni fa in Lombardia, la regione apparentemente più ricca ed avanzata d’Italia? Poco, tristemente poco.


Avanti! della domenica N.27 del 10 luglio 2011

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