I CITTADINI NON SONO UGUALI QUANDO PAGANO UN SERVIZIO SOCIALE

di Daniela Mignogna 
(Segreteria Nazionale del PSI - Politiche Socio Sanitarie)
 
Pagare la retta di una casa di riposo o di un asilo nido a Bologna non è la stessa cosa che farlo a Milano, a Venezia, a Firenze, a Napoli. E questo vale per tutti i servizi previsti dall'assistenza sociale, da quelli per le persone disabili a quelli per gli anziani o per i minori. Gli oltre 8.000 Comuni italiani, infatti, fanno pagare ai cittadini percentuali diverse e spesso inique pur offrendo lo stesso identico servizio. Questo accade perché non esiste in Italia uno standard in materia e le amministrazioni comunali hanno la possibilità di stabilire da sé il concorso alla spesa dei cittadini. Non essendo previsto, insomma, un ticket come quello sanitario, accade che da un Comune all'altro ci siano variazioni per il contributo individuale ma anche per le prestazioni dal 10% fino anche al 40%. Si tratta di un problema che, nonostante le indagini dell'Istat, tende a essere poco conosciuto e discusso.
Le fonti di finanziamento delle risposte di assistenza sociale sono molteplici: lo Stato, con il Fondo sociale nazionale e la spesa per trasferimenti monetari di varia natura, le Regioni con il Fondo sociale regionale e altri centri di spesa, i Comuni e i cittadini. Questi ultimi concorrono al costo dei servizi anche per il 30%-40% della spesa complessiva. Essendo il singolo Comune a scegliere la quota di partecipazione, il risultato è di grande disomogeneità, mancanza di equità, differenze non giustificabili. Mentre per i servizi di interesse generale, come energia, acqua o rifiuti il costo di accesso e fruizione è oggetto di monitoraggio istituzionale, lo stesso non avviene per i servizi alle persone. La prospettiva federalista evidenzierà ancora di più queste differenze.
Se è quasi impossibile al momento pensare di ridurre del tutto le disuguaglianze, l'obiettivo che bisogna perseguire è di riuscire a ottenere almeno un'equità orizzontale, permettendo cioè di far pagare la stessa cifra alle persone nelle stesse condizioni di reddito. E per fare questo bisogna promuovere un uso più diffuso degli indicatori economici quali l'ISEE, che però dovrebbero essere rivisti e ampliati. Un problema con questi indicatori è che si riferiscono all'anno precedente rispetto a quello della rilevazione e quindi rischiano di non rendere conto efficacemente della situazione attuale dei cittadini, soprattutto in questi tempi di crisi in cui molto può cambiare per una persona da un mese all'altro. Inoltre l'ISEE coglie solo alcune dimensioni della capacità contributiva e rischia di non essere sufficiente. 
Per limitare il peso economico che la contribuzione all'assistenza ha sulle famiglie, un'ipotesi innovativa potrebbe essere quella di tenere conto oltre che del reddito, anche della partecipazione attiva della famiglia in termini di assistenza diretta. Sarebbe importante iniziare a valutare non solo gli aspetti prettamente economici, ma anche considerare il tipo di aiuto e sostegno su cui il singolo può contare. In altre parole, se il nucleo familiare partecipa attivamente all'assistenza, apportando di fatto un beneficio al servizio, si potrebbe pensare di attenuare la contribuzione come una sorta di indennizzo.

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